Penna&Calamaro - N° 0004 - 01-04-2022
Della serie: Una storia - Dark
Avviso i gentilissimi lettori che la storia che segue è caratterizzata da tinte molto dark.
Una sera di queste mi è capitato di vedere un ragazzo cadere da una sedia. Giuro. È successo davvero. Abbiamo riso tutti. Poi, però, la sera ho pensato a cosa comporta una risata. Mi si è srotolata in mente questa storia. Ero già da tempo nel mood di scrivere una storia dai tratti horror e volevo dare voce a questa immagine che mi correva nella testa da diversi anni. Mi è sembrato che la congiunzione astrale fosse perfetta per dar vita finalmente a questo racconto. Quando diventerò un serial killer, ricordatevi di questo giorno…
Prometto che parleremo di cose lugubri oggi per essere più colorati domani!
Prologo
Il caldo del costume rendeva davvero un inferno respirare. Ogni boccata d’aria era un peso nei polmoni. Nonostante fossero passati più di 30 anni dalla prima volta che lo aveva indossato, l’uomo nel grande costume composto da tanti strati di peluche rosso non riusciva ad abituarsi alle temperature che si raggiungevano lì dentro. Stava sudando copiosamente ed essere steso per terra, bendato e con le mani e le gambe legate non aiutava di certo a sentirsi meglio. Un retrogusto ferroso si impastava nella bocca secca. Non riusciva a capire dove fosse ma dalla eco delle sue urla intuiva che l’ambiente fosse molto grande e chiuso.
Quanto tempo era passato? Ore? Minuti? Giorni? Era ancora stordito dalla botta in testa e il suo pensiero cercava di scavare nei cassetti della memoria per ricostruire quanto fosse successo. Non riusciva a ricordare un cazzo e questo lo rendeva nervoso. Più si innervosiva e più sudava. Era un circolo vizioso senza alcun tipo di senso. Essere lì non aveva senso. Tutta la fottuta situazione non aveva senso.
Provò a urlare diverse volte per chiedere aiuto ma riceveva risposta solo dalla propria voce che tornava indietro e iniziò a sentirsi solo e smarrito.
L’aria respirata si faceva sempre più calda e pesante e le lacrime iniziarono a confondersi con gli abbondanti rivoli di sudore. Il corpo ormai intorpidito dalla posizione fetale obbligatoria cominciò a perdere sensibilità e la vista già oscurata dalla benda si fece sempre più nera. Un senso di sonno investì l’uomo che, dopo alcuni tentativi di lotta per resistere, si lasciò andare a quello che sembrava il suo destino. I muscoli si rilassarono e le forze vennero meno. Svenne.
La grottesca immagine di un grosso pupazzo rosso, sorridente, con gli occhi sbarrati, steso sul pavimento sudicio di un capannone industriale abbandonato avrebbe fatto venire i brividi a chiunque. Luca era diverso. Era seduto lì da ore su una scomoda sedia di plastica ingiallita e guardava in perfetto silenzio l’ingombrante ospite divincolarsi da ore. Un ghigno attraversò il suo volto quando lo vide fermarsi. Portarlo lì era stata un’impresa ma ne era valsa la pena.
Si mosse solo per andare a controllare più da vicino se fosse davvero svenuto. Con un po’ di difficoltà gli diede un calcio e non ricevette nessuna reazione. Controllò l’orologio.
Lo spettacolo era solo all’inizio.
Dovete stare vicini vicini
Il vuoto tutto intorno venne interrotto da alcune risate. La confusione era tanta ed essere spaesato era la più normale tra le reazioni umane. Nonostante non toccasse alcool da anni, non era mai stato così ubriaco di sensazioni forti. Senza comprendere come e quando, l’uomo nel costume si svegliò seduto su una vecchia poltrona di pelle logora. Era legato con un numero abbondante di corde e non aveva modo di muoversi. Dei nodi stretti in modo meticoloso erano tutto ciò che lo separava dalla libertà. Poteva sentirli sulla pelle nonostante l’involucro in cui era chiuso. La benda che precedentemente copriva gli occhi ormai era stata tolta e ora giaceva per terra vicino ai suoi piedi. Respirare era diventato di colpo più facile perché la parte alta della grossa testa del pupazzo che stava indossando era stata aperta lungo la bocca e ribaltata alle sue spalle. Dal tetto gocciolava dell’acqua. La muffa era la padrona incontrastata di un posto che aveva certamente visto giorni migliori. Era posizionato al centro perfetto di un grosso stabile fatiscente e davanti a lui una vecchia televisione a tubo catodico, collegata a un video registratore Sony SLV-E9, trasmetteva le immagini sgranate e fluttuanti di un vecchio video riprodotto da una VHS. Nelle immagini più stabili si riconosceva il video di un bambino in bicicletta che cadeva e le risate registrate riecheggiavano tutto intorno per via del volume spropositatamente alto. Quei pochi secondi di video si ripetevano in modo malato e maniacale senza alcuna interruzione.
Un lento applauso ruppe la monotonia di quelle risate finte. L’uomo legato girò la testa fin dove era possibile per capire cosa stesse succedendo e, nonostante il riverbero, capì che il suono proveniva da un cono d’ombra poco distante.
«Ma guardate un po’ chi è tornato tra noi» disse la figura che si spostava lenta e zoppicante verso la luce continuando ad applaudire. Il suo peso esiguo oscillava tra la gamba buona e quella visibilmente malata facendolo sembrare un pendolo umano. «Il re è nudo, a quanto pare! Bentornata sua maestà». Un inchino plateale e ironico accompagnò la frase. Sembrava di essere alla corte della squallida copia di uno squallido castello. Il video continuava a ripetersi sullo schermo ma l’audio era diventato ormai un particolare trascurabile.
«Chi cazzo sei? Dove sono?» gridò furibondo l’uomo che intanto si agitava e si dimenava. Il suo cuore e quell’applauso ormai battevano all’unisono. «Se questo è uno scherzo te ne pentirai, stronzo!».
La snella figura ormai completamente illuminata iniziò a ridere forte. La sua risata e quelle del video si mescolarono in un modo così armonioso che nonostante il caldo del costume, un brivido di freddo percorse la schiena del malcapitato.
«Stia calmo, per cortesia. Non vorrà spaventare le famiglie e i bambini che la adorano così tanto. Una carriera di sorrisi e adesso mi cade su certe banalità. Spero si sia gustato lo spettacolo» disse indicando la televisione «altrimenti tutto questo non ha senso!». L’applauso era finito e ora le mani venivano usate per indicare gli oggetti nel loro contesto. Un’occhiata fugace fu data all’orologio sul polso. «Io sono Luca e spero voglia scusarmi se non le porgo la stessa domanda visto che la fama la precede!»
Niente di tutto quello che stava succedendo aveva senso. Se solo fosse stato possibile vederla da fuori, la scena sarebbe apparsa come un grottesco cortometraggio di dubbio gusto artistico a una rassegna indie sul cinema emergente. Una di quelle in cui si esagera con gli effetti color seppia e il sangue finto in stile splatter.
Il panico iniziò a prendere possesso dell’uomo seduto e la confusione nella sua testa era palpabile anche dall’esterno. Le lacrime tornarono a inondargli il viso e la sua voce ora era più rotta che mai. «Si può sapere cosa vuoi da me? Hai sbagliato persona. Non so chi sei e non so cosa vuoi». Le parole venivano morse dai singhiozzi e il naso colava ovunque.
Luca parlò con un tono sommesso e pacato. «Oh… Lei non sa chi sono perché non ha voglia di saperlo. Non se lo è mai chiesto. Non le è mai interessato. Io so chi è lei, però. Lei è quel pezzo di merda che ha vissuto una vita sulle spalle della gente». Il sorriso pian piano sparì dal suo volto e il freddo tono della sua espressione iniziò a essere coerente da quello della voce. I toni si fecero più accesi e le risate finte ormai non avevano più nessun potere in quell’ambiente. «Lo vede quel video?» e con il dito magro indicò la televisione. «LO GUARDI SANTIDDIO! LO GUARDI! Lo guardi come io l’ho visto scorrere sul mio schermo negli ultimi 30 anni! Lo vede quel coglione sulla bicicletta? LO VEDE? Rida di lui. Rida di me! Quello sono io!”. Come una freccia si affondò l’indice nel petto. “Quello sono io nel 1993 e questa gamba è il ricordo che mi porto dietro! Ci avete montato su due risate finte del cazzo e lo trasmettere in TV in un ciclo infinito di cattivo gusto mediatico! Sono anni che il mio telefono squilla ironicamente quando quel video appare nelle vostre trasmissioni!»
La situazione era sempre più imprevedibile e il grosso pupazzo rosso non smetteva di provare a divincolarsi dalla stretta in cui era bloccato. Iniziò ad avere paura. Iniziò ad averne tanta. Luca era ormai in piedi vicino a lui e gli teneva la testa ferma con lo sguardo rivolto verso la televisione. Le mani esili e magre stringevano forte contro le guance e le tempie del suo prigioniero ed era possibile percepire la rabbia attraverso quella stretta. I volti dei due uomini erano così vicini che uno poteva sentire la puzza del fiato dell’altro. Uno puzzava di rabbia e l’altro di terrore.
«Tanti come me vivono costantemente la stessa situazione» continuò.
«Io sono solo la voce di tante menti. Sono l’angelo che porta il messaggio dell’insurrezione del popolo. Sono la parola “fine” di un libro che ci ha rotto i coglioni!».
Con uno scatto felino, nonostante il passo claudicante, Luca si staccò e andò a prendere un grosso sacco che si riportò dietro raggiungendo nuovamente la posizione vicino alla poltrona. Avvenne tutto in una manciata di secondi. Un odore di carogna arrivava dal contenitore di juta ma l’uomo seduto non riusciva a distinguere nulla. I suoi occhi erano ormai inondati di lacrime. Mentre implorava pietà, vide l’altro lanciare in aria qualcosa e ci mise molto prima di capire che si trattasse di piume di uccello. Quando i loro sguardi si incrociarono, l’esile volto dell’uomo in piedi si riempì di un sorriso inquietante. «La capisci l’ironia?» domandò in modo beffardo. «Sono piume di papera. Tante piume di papera. Tante papere. PAPERE. Ahahahahahah.»
Una serie di brevi beep arrivò dall’orologio da polso. Il suo voltò si illuminò di ulteriore luce riflessa mentre sfilava dal sacco una piccola carogna grigia che poggiò sulle grasse gambe rosse da pupazzo.
«E non hai ancora visto questo!» disse. «Lo riconosci? Sì? Sì! Bravo. È Amilcare!»
Un sinistro ticchettio proveniva dall’interno di quello che rimaneva dall’animale. Presumibilmente, ino a pochi mesi prima, era stato un gatto. «Ora, da bravi fate amicizia, besughi! Io devo andare. Non litigate. Dovete stare, per sempre… vicini vicini!»
L’inquietante silhouette del pupazzo era la rappresentazione di un grido disperato di aiuto. La sua bocca così esageratamente aperta era la cornice perfetta per le urla della persona al suo interno.
Intorno allo stabile c’era il silenzio che precede il più forte dei fragori. Una vecchia Ford Fiesta si stava allontanando molto velocemente. Lì dove tanti anni fa c’era il rumore della vita industriale ora c’era un sinistro silenzio.
Ma durò poco.
Epilogo
«Pronto! Qui è la Polizia»
«Sì. Pronto. C’è stata un’esplosione in un capannone abbandonato vicino casa nostra»
«Sì, signora. Non si allarmi. Siamo già stati avvisati.»
«No…. Ehm… Voi non capite… Non è facile… Cioè…»
«Signora dica pure!»
«Ho molte macerie dell’esplosione nel giardino di casa.»
«È normale. Manderemo qualcuno a controllare.»
«Non sono le macerie il problema…»
«E cosa allora?»
«C’è… C’è… C’è la testa del Gabibbo sul cofano della mia macchina!»
LOL, piegato! Manco in mille anni! <3